Poesia n°10

 

 

 

 

sono le 03:07,

il freddo che mi punge

la schiena con la punta

del suo coltello,

affilato dalla notte,

mi ha svegliato.

mi tormenta,

il torpore del sonno,

ancora stringe

nella morsa le mie tempie,

non vuole lasciarmi

andare la mano di Morfeo.

non ho la più pallida idea

di dove possa trovarmi,

ma lo sento, il principio

non può essere

lontano da dove, adesso,

scoprendomi frammenti,

avverto d’esistere in qualcosa.

sotto il braccio, l’occhio

spunta sopra un foglio bianco,

vuoto, come il vuoto

che mi s’allarga intorno

nel vano tentativo d’inghiottirmi,

(R)ESISTO.

alzo la testa,

senza pensare di farlo,

una fitta mi s’infila

dritta a cercarmi il collo,

e mi pare di non poterlo

reggere il peso della fronte.

il foglio vuoto mi viene appresso,

insegue, come un’ombra, lo sforzo.

il braccio si solleva, traccia,

l’orbita perfetta alla quale reggersi,

e nella geometria della curva

ne misura forza e peso.

ne intuisce, così, la leggerezza,

si stacca, per ricadere

esattamente in quello che si ostina

voler essere il suo posto:

quella specie d’eternità

che si costringe ad esistere

a dispetto della miopia nella quale

soffre il genere umano.

resta, a lasciarsi contenere quel foglio,

da quel distacco,

sorpreso da uno spazio di parentesi

vuote che non so più come riempire.

“forse ho sognato?”

mi suggerisce la ragione,

ma il cuore insiste, “il sogno è adesso”

e la logica, sospesa, fra:

la certezza immediata della mia assenza fisica,

ed il fatto concreto che questo stato mentale

può esistere soltanto senza che se ne prenda coscienza,

può solo arrendersi e dargli ragione.

allora che fare, se, destatomi, in tutta coscienza

mi scoprissi d’essere soltanto un uomo?

mortale per giunta: costretto ossa e carne,

lasciate alla mercé di quel mostro che, palpabile

solo a prenderne atto sulla propria pelle,

vigliacco si nutre di nascosto

divorandomi la vita: il tempo.

ma il tempo esiste in seno alla morte,

è lì che si nutre per davvero,

è lì che si lascia con certezza

contenere l’assoluto.

dovrei, piegato a quella volontà,

restare chino, non alzarla mai la testa,

tenere il capo ben stretto alle mie dita

affinché le mie mani, impeditami l’ascesa

ad affrancarmi dal mio sogno, recise le ali,

si prendano cura, dal basso del mio ventre,

solo di quel che la terra mi concede?

scavare la mia fossa.

Ma allora, non lo è la morte soltanto

un inganno?

e l’immortalità che la insegue,

qualcosa di spregevole alla vista,

costretta a sopportare

questo misero e patetico piccolo mondo,

rotolare di gioia sulla lingua di Polifemo,

risparmiato, nel suo unico occhio, dalla furia di Odisseo?

allora che cosa dovrei temere io?

nulla, se di questo sogno

si nutre ogni mio nervo.

allora gli si leghi ogni atomo

a reggerne la follia,

a sopportarne il dolore: la scoperta

della vacuità della presenza,

non dare tempo alla ragione,

condensare, in un solo respiro,

l’intera logica dell’esistenza,

trattenerlo, quel soffio, per lasciarlo andare

solo nella direzione che

il mio cuore gli concede.

spalancare gli occhi a catturare il sole,

richiuderli ancora a trattenerlo,

sfogliarne, uno per volta, i raggi.

sentirli, nella carne, cercare una via d’uscita,

farsi strada, bruciare le viscere,

dissolversi fino lasciare

la luce che solo l’anima

può riuscire a vedere.

voglio essere una gemma d’orata

che si raccoglie tutta nel suo unico ramo.

un fiore di ciliegio che;

abbracciato alla primavera,

sboccia sul nervo del suo albero più bello.

lotta, resiste,

a non perdere, a non vincere,

a non farsi frutto per essere

raccolto e divorato dagli uomini,

o seme rigenerato all’infinito,

sempre uguale.

ma bellissimo fiore reciso

nell’incontenibile furia del vento,

che cade, spazzato via lontano,

solo per essere, una volta sola,

raccolto fra le mani chiuse della terra.

no, questo non è cedere, né lasciarsi vivere,

questo è essere.